Quando si parla di disabilità, di malattia psichiatrica o più in generale di disagio, ritorna sempre prepotente il tema dell’integrazione: parola magica che è nel contempo lo strumento e la finalità di un intervento, e che proprio per la sua ampiezza semantica, spesso vuol dire tutto e nulla…anche nella stessa testa degli addetti ai lavori.

Da un qualunque dizionario, integrazione è definita pressappoco come: “assimilazione, inserimento di individui o gruppi in un ambiente sociale, in una comunità”. Il termine assimilazione implica che l’individuo non è semplicemente “messo dentro” in qualche modo in un contesto, ma da tale contesto è “assorbito” e “fatto simile”, cioè da tale ambiente sociale è considerato adeguato, appartenente ad esso, gli è dato un ruolo (riconosciuto) ed un compito funzionale al mantenimento del sistema stesso. Il termine comunità fa riferimento alla condivisione di una cultura e ad un minimo legame di condivisione di “storia”, di esperienze fra tutti i soggetti appartenenti al sistema.

Provando ad applicare questi concetti all’integrazione di persone con disabilità o disagio psichico, occorre chiedersi quali sono gli ambienti sociali, la comunità in cui questi individui debbono (e soprattutto vogliono!) essere integrati.

 

Sicuramente tre sono i contesti principali di vita attualmente a disposizione di una qualunque persona: la famiglia, il mondo del lavoro (o in alternativa la scuola) ed il gruppo (amicale) in cui si trascorre il cosiddetto “tempo libero” (che è sempre, è bene dirlo, il tempo residuo rispetto a quello impiegato negli altri due contesti: pertanto, più tempo è assorbito dalla famiglia e dal lavoro, meno ne resta a disposizione e da occupare per il tempo libero).

Detto che l’integrazione nel contesto familiare è, o dovrebbe essere, automatica e naturale, come operatori sociali dobbiamo occuparci soprattutto di cosa vuol dire e come si fa l’integrazione nel mondo del lavoro e nel tempo libero.

Integrazione nel lavoro non vuol dire semplicemente “essere al lavoro” (ovvero svolgere un’attività) né soltanto “avere un lavoro” (ovvero avere titolarità di un contratto regolare con un datore di lavoro); integrazione significa qualcosa di più ed anche di diverso: che la persona è riconosciuta e trattata come membro dell’organizzazione, in quanto in possesso dei requisiti necessari a farne parte, in quanto motivata e impegnata a perseguirne gli obiettivi, in quanto “capace” di (contribuire a) raggiungere i risultati che gli sono stati affidati. Operare per l’integrazione lavorativa implica occuparsi di tutti questi aspetti…

 

Anche se apparentemente più facile, l’integrazione nel tempo libero è in realtà più difficile, in quanto non supportata da strumenti normativi (e neppure da un’elaborazione concettuale ed una prassi operativa strutturate…): forse perché è considerata secondaria e meno importante rispetto a quella lavorativa… Tuttavia l’esperienza insegna che la sola integrazione lavorativa è fragile, e quindi insufficiente, quando poi la persona è sola e affettivamente impoverita, quando al di fuori del lavoro non ha cose interessanti da fare e persone considerate care con cui condividerle. Perché in fondo il lavoro è la modalità con cui procurarsi le risorse per acquisire beni utili ed esperienze da vivere dopo l’attività lavorativa. Ovvero senza un tempo libro gratificante rischia di mancare anche la motivazione per svolgere l’attività lavorativa! Alla luce di questa verità lapalissiana, occorre quindi costruire occasioni in cui la persona con disabilità o disagio psichico possa, al di fuori del lavoro, svolgere attività gratificanti, che generano autostima e benessere. Queste attività possono essere svolte magari anche con gli stessi colleghi, ma non necessariamente; possono essere svolte anche da soli, purchè la pratica generi esperienze che poi possono essere condivise in una “comunità di praticanti”…

 

Un particolare ambito di integrazione extralavorativa è quella politica e di cittadinanza, troppo spesso trascurata nei confronti delle persone svantaggiate; essa contempla tutte quelle attività (l’approfondimento dei problemi, la partecipazione, l’impegno collettivo, il voto, ecc…) che servono a costruire la convivenza civile e le istituzioni, intese come organizzazioni collettive finalizzate alla gestione del “bene comune”. Attraverso la partecipazione alla vita sociale e politica della comunità, ci si assume, e con il tempo viene attribuito e riconosciuto, un ruolo nella “storia” di un luogo, si contribuisce alla sua cultura, ovvero al sistema di credenze e valori condivisi, che ne sostanziano i comportamenti. Poiché una persona in condizione di disabilità o di disagio psichico possa essere assimilata in una comunità, occorre evidentemente che si metta a disposizione e partecipi alla sua edificazione ed al suo mantenimento, attraverso tutte le forme di partecipazione politica e sociale in essa attive…